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123.Alcun ve n’ha, che la vital rugiada
con un corno di bue per bere attigne,
e gustata che l’ha, tanto gli aggrada
la sostanza del Ciel data a le vigne,
che forza è poi che titubando cada
con luci enfiate e torbide e sanguigne,
e vinto da colui che mutò forma,
ebro vaneggi, o tramortito dorma. —

124.Non ebbe forza l’Inventor del mosto
di piú dir altro ai circostanti Numi,
ché l’amara memoria inondar tosto
gli fe’ le guance di duo caldi fiumi,
onde il sembiante in grave atto composto,
tacendo s’asciugò gli umidi lumi;
e poi ch’egli del tutto ebbe taciuto,
cosí parlò la Socera di Pluto:

125.— Ne’ vostri casi (o Dei) non vi consolo,
ché di pianto son degni, e di cordoglio;
ma chi langue d’Amor non è mai solo,
anch’io d’Iasio rammentar mi soglio.
Taccio quanto soffersi affanno e duolo,
ché l’antiche follie narrar non voglio.
Narrerò d’un Garzon tragedia tale
ch’io piansi piú l’altrui, che ’l proprio male.

126.Né trovar si poria chi farne fede
meglio di me, che ’l vidi, unqua potesse,
perch’ove bagna a la mia reggia il piede
l’onda di Scilla, il caso empio successe.
Videlo ancor costei, che tra noi siede,
e ’l vider seco le sue Ninfe istesse,
e v’accorse pietosa, e se ne dolse,
e tra le braccia il misero raccolse.