Pagina:Marino, Giambattista – Adone, Vol. II, 1977 – BEIC 1871053.djvu/485


139.— Lascia o Dea — le dicea — deh lascia omai
di rotar l’orbe tuo, che piú non splende.
Non vedi tu laggiú (scendi, che fai?)
di morte e di dolor sembianze orrende?
Cingi il bel crin, non piú di rose e rai,
d’atri cipressi, e di funeste bende.
Tempo non è da far per la via torta
(mentre il tuo Sol tramonta) al Sol la scorta. —

140.Non cosí d’Euro a le gagliarde scosse
trema in alto Appennin pianta novella,
come a l’annunzio orribile si mosse
d’accidente sí rio la Dea piú bella.
Fermò, vinta dal duol che la percosse,
il suo corso, il suo cerchio, e la sua stella.
Stupí, smorí, fu dal mortai dolore
suppresso il pianto, e s’ingorgò nel core.

141.Ma poi ch’a l’ira impetuosa il duolo
cesse, e potè del petto il varco aprire,
parte vòlta a le stelle, e parte al suolo,
prese altamente in questa guisa a dire:
— Or qual, vivo colui che regge il polo,
ebbe tanto poter, terreno ardire?
Regna il mio sommo Padre? o pur insani
signoreggiano il Ciel gli empi Titani?

142.Rotte forse le rupi ha d’Inarime
con l’altera cervice il fíer Tifeo?
Da Vesevo, il cui giogo ancor l’opprime,
risolleva la fronte Alcioneo?
Da le valli d’Abisso oscure ed ime
fulminato risorge or Briareo?
O d’Etna in Cipro pur si riconduce
a rivedere Encelado la luce?