Pagina:Marino, Giambattista – Adone, Vol. II, 1977 – BEIC 1871053.djvu/36


103.Le palpebre disserra al novo lume,
né sa dove drizzar l’orme raminghe.
Ode i vaghi augellin batter le piume,
e col canto addolcir l’ombre solinghe.
Vede rincrespar Tonde al picciol fiume
l’aura, ch’alletta altrui con sue lusinghe,
e degli arbori i rami agita e piega,
e le cime de’ fior lega e dislega.

104.Lasso, ma quel ch’altrui diletta e giova,
accresce al mesto cor pianto novello,
onde, poi che refugio altro non trova,
si mette a contemplar l’Idol suo bello;
e mentre gli occhi d’ingannar fa prova
col virtuoso ed efficace anello,
per la selva non lunge ascolta intorno
stridula rimbombar voce di corno.

105.Vien dopo ’l suon, che par che i veltri a caccia
chiamando irriti, una Cervetta estrana,
che stanca, e come pur gli abbia a la traccia,
anelando ricovra a la fontana:
ma visto Adon, gli salta entro le braccia,
né sapendo formar favella umana,
con gli occhi almen, con gli atti, e co’ muggiti
prega che la difenda, e che l’aiti.

106.Non crederò, tra le piú vaghe Fere
Fera mai piú gentil trovar si possa.
Brune le ciglia, e le pupille ha nere,
bianca la spoglia, e qualche macchia rossa.
Ma piú ch’altro mirabili a vedere
son de la fronte in lei le lucid’ossa.
Son tutti i rami de le coma grandi
del piú fin or che l’Oriente mandi.