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60 la fortuna


15.Che tu fra gli egri e languidi mortali,
di cui s’odono ognor gridi e lamenti,
semini colaggiù martìri e mali
convien, malgrado mio, ch’io mi contenti.
Ma soffrirò che ’n Ciel vibri i tuoi strali,
non perdonando a le beate genti?
che sostengan per te strazii sì rei,
serpentello orgoglioso, anco gli Dei?

16.Che più? fin de le stelle il sommo Duce
questo malnato di sforzar si vanta:
e spesso a stato tale anco il riduce,
ch’or in mandra, or in nido, or mugghia, or canta.
Un pestifero mostro, orbo di luce,
avrà dunque fra noi baldanza tanta?
un, che la lingua ancor tinta ha di latte,
cotanto ardisce? — E ciò dicendo il batte.

17.Con flagello di rose insieme attorte,
ch’avea groppi di spine, ella il percosse,
e de’ bei membri, onde si dolse forte,
fe’ le vivaci porpore più rosse.
Tremaro i poli, e la stellata Corte
a quel fiero vagir tutta si mosse.
Mossesi il Ciel, che più d’Amor infante
teme il furor, che di Tifeo Gigante.

18.De la reggia materna il figlio uscito,
con quello sdegno allor se n’allontana
con cui soffiar per l’arenoso lito
calcata suol la Vipera Africana
o l’Orso cavernier, quando ferito
si scaglia fuor de la sassosa tana
e va fremendo per gli orror più cupi
de le valli Lucane, e de le rupi.