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139.Ma qualor da lui scampo, e lá rifuggo,
dov’ha piú di vermiglio il tuo bel viso,
piú dolce ambrosia (oh me beato) io suggo
di quella che si gusta in Paradiso.
Zefíretto soave, ond’io mi struggo,
sento spirar de le tue rose al riso,
lo qual del foco, che ’l mio cor consuma,
ventilando l’ardor, vie piú l’alluma.

140.Xo che baci non son questi ch’io prendo,
son de la dolce Arabia aure odorate,
d’una soavitá ch’io non intendo,
piú che di cinnamomo, imbalsamate.
Son profumi d’Amor, ch’ei va traendo
da l’incendio de l’alme innamorate.
Par ch’abbia in queste porpore ricetto
quanto mèle han Parnaso, Hibla ed Himetto.

141.Felice me, che meritar potei
quel dolce mal, che tanto ben m’ha fatto.
Ma son ben folle ne’ diletti miei,
che bacio e parlo in un medesmo tratto.
È sí grande il piacer, che non vorrei
la mia bocca occupar fuor che ’n quest’atto.
E con la bocca istessa il cor si dole
quando i baci dan luogo a le parole. —

142.— Ed io — dic’ella — che fruir mi vanto
gloria infinita in que’ superni seggi,
non provo colassú diletto tanto,
ch’a la gioia presente si pareggi.
Prendi pur ciò che chiedi, e chiedi quanto
di me ti piace, a tuo piacer mi reggi.
Ecco a picciole scosse a te mio bene
sospirando, e tremando, il cor sen viene.