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CANTO QUINTO

Poscia che degno il fe’ ch’egli salisse
de la scala d’Amor su ’l grado estremo,

«Tu vedi ben» piú volte ella gli disse
«sí com’io sol per te languisco e gemo.

Non far torto a lo strai che mi trafisse,
sol perché troppo t’amo, io troppo temo.

A la giurata fé non far inganno,

se non vuoi che ’l favor ti torni in danno».

«No no» dicea ’l Garzon «beltá non veggio,
che mi possa adescar ne’ lacci suoi.

Dal dí ch’aveste in questo core il seggio,
per altr’occhi languir non seppi poi.
Qualunque, ovunque io siami, esser non deggio
altro giá mai che vostro, altro che voi.

Arderò, v’amerò (cosí prometto)

fin ch’avrò sangue in vena, anima in petto».

Non molto andò, che per riposte vie,
vago di refrigerio e di quiete,
mentre ne la piú alta ora del die
cercava umor per ammorzar la sete,
stelle il guidaro insidiose e rie
in certe solitudini secrete,
dove ombraggio cadea gelido e fosco
dal folto crin d’un taciturno bosco.

Tra discoscese e solitarie piagge
volge gran rupe al Sol le spalle alpine.

Ombran la fronte sua piante selvagge,
quasi de l’aspra testa ispido crine.

Per l’occhio d’un canal distilla e tragge
lagrime innargentate e cristalline.

Apre un antro le fauci a piè del fonte
quasi gran gola, e fa la bocca al monte.