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260 la novelletta


239.Così parlando, le cacciò le mani
de’ capei d’oro entro le bionde masse,
e con motti oltraggiosi, e con villani
scherni, volesse o no, seco la trasse.
Giunta a la Dea, da tanti strazii strani
rotta, con viso chino e luci basse
le ginocchia abbracciolle, innanzi al piede
le cadde a terra, e le gridò mercede.

240.Con un riso sprezzante a lei rivolta
dice Venere allori «Se’ tu colei
ch’a le Dee ili beltà la gloria hai tolta?
ch’ai domo il domator degli altri Dei?
Ecco pur la tua Socera una volta
degnata alfìn di visitar ti sei!
O vien’ forse a veder l’egro marito,
ch’ancor per tua cagion langue ferito?

241.Or io ti raccorrò (vivi secura)
come buona raccor nuora conviene.
Sù suso ancelle mie. Tristezza e Cura,
date a costei le meritate pene!»
E tosto a far maggior la sua sventura
ecco duri flagelli, aspre catene:
battendola con rigide percosse
la fiera coppia ad ubbidir si mosse.

242.La rimenano avante al suo cospetto
poi ch’ambedue l’han tormentata forte,
spettacol da commovere ogni petto,
se non di lei, che la disama a morte.
Di corruccio sfavilla, e di dispetto,
e da le luci allor traverse e torte
girando obliquo il guardo a l’infelice,
aspramente sorride, e così dice: