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216 la novelletta


63.Fu già, quando la gente a me porgea
(al Ciel devuto) onor profano ed empio,
quando quasi d’Amor più bella Dea
ebbi (voi permettenti) altare e tempio,
allor fu da dolersi, allor devea
pianger ciascuno il mio mortale scempio.
Or è il pianto a voi tardo, a me molesto:
di mia vana bellezza il fine è questo.

64.L’Invidia rea, che l’altrui ben pur come
suo proprio male aborre, allor mi vide.
I’ so pur ben, che l’usurpato nome
de la celeste Venere m’uccide.
Che bado? andianne pur; quest’auree chiome
con vil ferro troncate, ancelle fide.
Quel sì temuto omai consorte mio
già di veder, già d’abbracciar desio».

65.Qui tace, e già d’una montagna alpestra
eccola intanto giunta a la radice,
ch’al Sol volge le terga, e piega a destra
sotto il gran giogo l’ispida cervice.
Quindi di sterpi e selci aspra e silvestra
pende sassosa e ripida pendice,
rigida sì, ch’a pena s’assecura
d’abitarvi l’orror con la paura.

66.Il mar sonante a fronte ha per confine,
da’ fianchi acute pietre e schegge rotte,
dirupati macigni e rocche alpine,
oscure tane e cavernose grotte,
precipizii profondi, alte ruine,
dove riluce il dì come la notte,
dove inospiti sempre, e sempre foschi
dilatan l’ombre lor baratri e boschi.