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Il sipario si alza sullo stesso buiore denso di fumi che impeciava la scena durante il terzo atto, nel momento in cui Santa Putredine apparve l’ultima volta, incorniciata nella finestra. L’apparizione fu a mezzanotte; ora sono le quattro del mattino.

I crespi neri e i veli azzurrini dovranno quindi esser sollevati lentamente, ad uno ad uno, per simulare il lento ritrarsi della notte fitta ai primi vaghi bagliori dell’alba.

All’estremità della tavola, va sempre più nettamente delineandosi la figura colossale di Famone, che, mostruoso, puntati i gomiti sul desco, si regge fra le palme il mento, più largo d’una pala.

Egli tende il collo, e la sua bocca è ancora spalancata da un vano sforzo ch’egli fa per recere. Alla destra e alla sinistra di Famone, si vedono Pappone e Salame, anch’essi coi gomiti sulla tavola, uno di fronte all’altro, spaventosamente più corpulenti che non fossero durante il terzo atto. Pappone, che ha divorato Fra Trippa, è anche più obeso di Salame, che ha nel ventre Anguilla.

L’effetto allucinante di queste mostruose figure sarà reso, nella rappresentazione teatrale, per mezzo di enormi fantocci vagamente somiglianti a rospi giganteschi e contenenti ognuno un attore che sosterrà la parte di divorato.

Una melopea viscerale composta di gemiti sinistri, di rantoli soffocati, di singhiozzi, di grugniti, ondeggerà da un capo della tavola all’altro, attraverso l’atmosfera d’incubo che pesa sul refettorio. Si cercherà di attutire e di render vaghe quanto più sia possibile codeste voci salenti dalle viscere dei divoratori, in modo che sembrino misteriose come le voci d’oltretomba delle vecchie tragedie.