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— Sì, il rumore di un sasso che cade in un pozzo. È stato accolto gelidamente. Non ha trovato una sola persona, neppure tra le poche a cui l’offersi, che l’abbia accolto come si accoglie un forestiere raccomandato da qualche amico, un visitatore onesto, civile, senza ingegno forse, ma non senza cuore, posso dirlo, il quale vi domanda solo di essere udito quando vorrete voi.

— Come mai? Questa sarà invidia, io credo.

— No, no, no. Ci sono uomini e libri sfortunati che spirano antipatia, persino a’ cuori più gentili.

— Questo è vero, mio caro amico, questo è vero sempre.

— Mi pare che un autore non lo dovrebbe credere — osservò Edith senza alzare il capo dal lavoro.

Silla tacque.

— Perchè, Edith? — chiese Steinegge.

— Perchè questa opinione gli deve togliere la fede, la forza; gli deve impedire di studiare bene i difetti delle sue opere.

— No — disse Silla. — Per un pezzo si dura saldi; anzi, più la fortuna ci combatte, più la si disprezza, più si lavora, più si cerca di appagare noi stessi, la nostra coscienza. Le ferite stimolano quasi, danno vigore; ma poi ne capita una inaspettata nel fianco, e allora non c’è più che da cader bene, a fronte alta, senza chieder pietà.

— Sarà vero, ma direi che bisogna diffidar molto della nostra fantasia, e badar bene di non attribuire alla fortuna quello che non le va attribuito. Non le pare? Non è più virile di crederci poco alla fortuna?

— Oh — esclamò Steinegge, — come non vuoi credere alla fortuna? Saresti tu esule, quasi povera, e sola con un vecchio poltrone se non ci fosse la fortuna?

Gli occhi di Edith scintillarono.

— Papà! — diss’ella.

Egli non ebbe il coraggio di confermar colla voce, ma confermò col capo, ridendo silenziosamente, quello che aveva detto.