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atto quinto 61


Egisto.   Deh che mai narri!

Polidoro.   Il ver ti narro:
tu di quel re sei figlio; all’empie mani
di Polifonte Merope tua madre
ti sottrasse ed a me suo fido servo
ti dié, perch’io lá ti nodrissi occulto
e alla vendetta ti serbassi e al regno.
Egisto.   Son fuor di me per meraviglia e in forse
mi sto s’io creda o no.
Polidoro.   Creder mi dèi,
ché quanto dico, il giuro, e quella gemma
— gemma regal — Merope a me giá diede;
e spento or ti volea, perch’altri a torto
le asserí che rapita altrui l’avevi,
e l’omicida in te di te cercava.
Egisto.   Ora intendo, o gran Giove. Ed è pur vero
che mi trasformo in un momento e ch’io
piú non son io? D’un re son figlio? È dunque
mio questo regno, io son l’erede.
Polidoro.   È vero,
s’aspetta il regno a te, se’ tu l’erede.
Ma quanto e quanto...
Egisto.   In queste vene adunque
scorre il sangue d’Alcide. O come io sento
farmi di me maggior! Ah! se tu questo,
se questo sol tu mi scoprivi, io gli anni
giá non lasciavo in ozio viil sommersi;
grideria forse giá fama il mio nome;
e ravvisando omai l’erculee prove,
forse i messeni avrianmi accolto e infranto
avriano giá del rio tiranno il giogo.
I’ mi sentia ben io dentro il mio petto
un non so qual non ben inteso ardore,
che spronava i pensier, né sapea dove.
Polidoro.   E perciò appunto a te celar te stesso
doveasi; il tuo valor scopriati, e all’armi