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Ermondo.   Eh no, m’intendo e parlo

del governo. Mi dicon, ch’ella vada
sovente a la campagna.
Anselmo.   Chi le ha detto
tal pazzia? Non ho avuto mai bisogno
d’andare in campagna, né a far opere
in essa ; vo bensi spesso in campagna,
cioè in villa e a villeggiar non men degli altri
galantuomin.
Ermondo.   Di questo appunto intendo.
Ben so che avrá lavoratori e il suo
intendente.
Anselmo.   Ho un fattor, che quanto sia
intendente non so. Mi dia licenza
di suggerirle che in grazia procuri
di parlar piú volgare; tai scempiaggini
qui non han plauso. Debbo cominciare
a parlar franco e come déesi a un genero.
Ma giá possiamo incamminarci.
Ermondo.   Appunto
questo è il mio desiderio.

SCENA II

Alfonso e detti.

Alfonso.   E dove, e dove,

signori con quest’aria si giocosa?
Ermondo.   Qual tien curiositá vossignoria
de’ fatti nostri?
Alfonso.   Io pi rio che indovino:
sen vanno a nozze.
Anselmo.   Ella or non dèe pigliarsi
di quanto noi facciam verun pensiero.
Quando correva errore e ch’io prendeala