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gran numero, e scagliato loro contro più frecce, finalmente ne cadde uno. Ritiraronsi tosto gli altri, e mi lasciarono in libertà di andar ad avvertire il padrone della fatta caccia. In favore della buona notizia, mi trattò lautamente, lodò la mia destrezza, ed accarezzatomi molto, andammo poscia insieme alla foresta, dove scavata una fossa, vi seppellimmo l’elefante da me ucciso, proponendosi il padrone di tornarvi quando fosse l’animale imputridito, per prenderne i denti e farne commercio.

«Continuai questa caccia per due mesi, e non passava giorno che non ammazzassi un elefante. Non mi metteva sempre in agguato sullo stesso albero, ma mi situava or sull’uno, or sull’altro. Una mattina, che aspettava l’arrivo degli elefanti, m’avvidi con estremo stupore, che, invece di passarmi davanti, attraversando, come al solito, la selva, si fermarono, e vennero alla mia volta con orribile schiamazzo, ed in tanto numero, che il suolo tremava sotto i loro passi. Avvicinatisi all’albero sul quale mi trovava, lo circondarono tutti, colla proboscide alzata e gli occhi fissi su me. A quel meraviglioso spettacolo, rimasi immobile, e fui colto da tale spavento, che l’arco e le frecce mi caddero di mano.

«Nè vana era la paura che mi agitava. Quando gli elefanti m’ebbero guardato, uno de’ più grossi circondò l’albero alla base colla proboscide, e fece uno sforzo sì violento che, sradicatolo, lo rovesciò a terra. Io caddi coll’albero; ma l’animale, presomi colla proboscide, mi depose sulla sua schiena, ove sedetti più morto che vivo, col turcasso attaccato alle spalle; e messosi quindi alla testa di tutto lo stuolo, mi portò fino ad un sito, ove, avendomi deposto al suolo, si allontanò cogli altri che lo accompagnavano. Concepite, se è possibile, lo stato in cui mi trovava; credeva di dormire piuttosto che vegliare.