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ricevuti e trattati il meglio che ne fu possibile, or non lasciate però di mancare alla vostra parola. Vero è che possiamo imputarlo alla troppo al latroppo al latroppo facile nostra condiscendenza, ma questo non vi scusa, ed incivile è il vostro procedere.» E sì dicendo, battè forte per tre volte i piedi e le mani, e gridò: — Accorrete.» Tosto una porta si aprì, e sette schiavi negri, grandi e robusti, entrarono colla scimitarra sguainata, s’impadronirono ciascuno de’ sette uomini della brigata, li stramazzarono a terra, li trascinarono in mezzo alla sala, e prepararonsi a tagliar loro il capo... È facile immaginarsi lo spavento del califfo, il quale ben si pentì allora, ma troppo tardi, di non aver voluto seguire i consigli del visir. Già quel disgraziato principe, Giafar, Mesrur, il facchino ed i calenderi erano sul punto di pagar colla vita la indiscreta loro curiosità; ma prima di portare il colpo mortale, uno degli schiavi disse a Zobeide ed alle sue sorelle: — Alte, potenti e rispettabili padrone, ci comandate voi di troncar loro la testa? — Aspettate,» rispose Zobeide, «voglio prima interrogarli. — Signora,» soggiunse atterrito il facchino, «in nome di Dio, non mi fate morire per l’altrui colpa. Io sono innocente; son essi i rei. Aimè!» continuò piangendo; «noi passavamo il tempo sì allegramente! Quei calenderi guerci sono causa di questa disgrazia. Non v’ha città che non cada in ruina davanti a gente di sì cattivo augurio. Signora, vi scongiuro di non confondere il primo coll’ultimo; pensate ch’è più bello perdonare ad un miserabile par mio, sprovvisto d’ogni difesa, che schiacciarlo sotto il poter vostro, sagrificandolo al vostro risentimento.

«Zobeide, malgrado la sua collera, non potè trattenersi dal ridere fra sè dei lamenti del facchino. Ma senza badargli, volse per la seconda volta la parola a tutti gli altri. — Rispondete,» disse, «e palesatemi

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