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ignominia a carico nostro, forse per l’invidia che gli dava il continuo prosperare de’ miei negozi commerciali. Per me forse avrei portato pazienza, non per la Pisana la quale io avrei difeso a costo anche della vita, beato di poterla in qualche modo ricompensare di tanti suoi sacrifizii. Perciò mi diedi io pure a frequentar quel caffè, e siccome pochissimi omai mi ravvisavano, me ne stava soletto in un cantuccio della camera posteriore, leggendo in apparenza la Gazzetta, ma in sostanza porgendo l’orecchio alla conversazione della prima stanza nella quale si mesceva sempre Raimondo colla sua solita spavalderia.

La seconda o terza sera ch’io mi metteva in quell’agguato (e già gli avventori e i garzoni mi adocchiavano di traverso sospettandomi forse una spia), udii nel caffè un romore insolito di sciabola e di sproni, e un gran chiasso di saluti e congratulazioni, e il rimbombo d’una vociaccia aspra e gutturale che mi parve di dover conoscere. Sì, perbacco, doveva proprio essere il Partistagno; infatti udii bisbigliare il suo nome da qualcheduno che rispondeva a chi gliene avea chiesto; e Raimondo poco dopo, gridando evviva al sig. generale, congratulandosi della sua grassezza, e domandandogli se veniva per tentare la reverenda badessa, non mi lasciò più alcun dubbio che non fosse lui.

— No, caro mio, non vengo più a tentare la badessa: — rispose il Partistagno — mia moglie mi ha favorito un dopo l’altro sette maschiotti che mi danno da fare più d’un reggimento, e le monache mi sono uscite del capo. Peccato! perchè suppongo non mi vedrebbe malvolentieri, benchè l’età debba aver cooperato molto a finire di farla santa. Voi piuttosto, caro Raimondo, come ve la siete cavata colla sua sorellina che non avea, mi pare, la minima disposizione di farsi monaca? Se vi ricordate l’ultima volta che fui a Venezia ne eravate ancora infervorato!... Giuggiole! Credo che ci sian corsi sopra vent’anni!...