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474 le confessioni d’un ottuagenario.

potesse condurci qualche mia ragazzata. Sopra questa o simile parola nascevano per consueto i gran diverbi; ma io non vi badava più che tanto, e sapendo che l’adoperava a fin di bene lasciavala far a suo modo. Altronde le antecedenze giustificavano abbastanza questa nostra famigliarità coi conti di Fratta; e non istava a me distoglierla da un’osservanza che era imposta anche a me stesso dalla gratitudine. Maggiore argomento di discordia ci era la condotta di Luciano, il quale, anzichè imitare nell’arrendevolezza e nell’operosità il fratello minore, si buttava allo scapato, non voleva sentire nè ammonizioni nè consigli, e quando lo si rimproverava, massime sua madre, di non volersi occupare delle cose più utili alla vita, rispondeva che, poichè non ci era vita, non capiva in che potessero consistere quell’utile o quel disutile, e che egli vi trovava il suo conto o bene o male, a dimenticarsi di tutto.

— Bada, Luciano — lo ammoniva io — bada che dimenticando tutto sopraggiunge poi il giorno che ci ricorda di qualche cosa, e allora troppo tardi ci accorgiamo d’aver dimenticato di farci uomini.

— A questo penso io, — ripigliava egli ricisamente. — E non ismetteva nulla delle sue scapataggini, de’ suoi stravizzi. Sicchè io più volte e con alquanta amarezza ebbi a beffarmi di sua madre, che avea preso una gran soggezione di quel suo ghiribizzo giovanile di andarsene in Grecia. Altro che Grecia! Mi pareva che la conversazione delle bionde veneziane, e il bicchierino di malvasia gli avessero cancellato dalla memoria quei generosi poemi. Ma secondo l’Aquilina era questa pure mia colpa, chè, lasciandolo padrone della fantasia, lo aveva avvezzato a non aver riguardo nè di padre nè d’amici, e a formarsi una felicità a suo modo.

— Ieri era la Grecia, — diceva ella; — oggi sono le