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capitolo ventesimo. 433

giunto ancora alla fine del foglio che mi si gettò fra le braccia esclamando: — Oh sì, padre mio, lasciami partire per la Grecia! —

D’una stretta di mano io ringraziai l’Aquilina, ch’essendo entrata in quel punto, mi si era seduta daccanto.

— Di che si tratta? — chiese ella.

Ed io le spiegai le profferte e gli inviti che ci venivano dalla Grecia.

— Se hanno vera vocazione, partano pure; — ella rispose facendo forza a se stessa; — bisogna correre ove si è chiamati, altrimenti non si fa nulla di bene.

— Grazie, mia Aquilina! — sclamai. — Tu sei la vera donna che ci abbisogna per rigenerarci! Quelle che non ti somigliano sono nate per strisciare nel fango. —

Udii una lieve pedata entrar nella stanza; era della Pisana che da alquanti giorni non parlava quasi più. Io sentiva la mancanza della sua voce, ma col tenerle il broncio mi vendicava delle ultime volte che mi aveva parlato sì acerbo. Lucilio quel giorno le mosse alcune richieste sulla sua salute, alle quali rispose per monosillabi e con voce più fioca del solito. Indi uscì come indispettita, l’Aquilina le tenne dietro, Luciano ubbidì forse ad un’occhiata di Lucilio, e restammo noi due soli.

— Ditemi; — principiò con un accento che annunziava un serio colloquio — ditemi qual diritto avete di fare il burbanzoso colla Pisana?

— Ah ve ne siete accorto? — risposi io — allora avrete anche badato alla straordinaria freddezza ch’ella mi dimostra!.... So che di molto le sono debitore; non lo dimentico mai, vorrei che tutto il mio sangue bastasse a provarle la mia riconoscenza, e lo verserei tutto fino all’ultimo gocciola. Ma alle volte non posso schivarmi di qualche ghiribizzo di superbia. Sapete che ultimamente ella mi ha cantato sopra tutti i toni, che soltanto per isvagarsi delle sue