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68 le confessioni d’un ottuagenario.


dopo una mezz’ora di tali strepiti il fattore non mancava mai di venire a ricompensarmene con quattro sonate di staffile. E questa dose si replicava la sera, quando scoprivano ch’io aveva tutto fradicio e guasto il mio libricciuolo.

Nei giorni comuni, dopo la messa ognuno andava per le sue incombenze fino all’ora del desinare; io poi aveva il mio bel che fare nel difendermi contro il famiglio del Piovano che veniva a cercarmi per le lezioni. Corri di qua, corri di là, io davanti ed egli dietro, finiva coll’esser mezzo morto di stizza e di fatica; e allora doveva fare con esso lui di gran trotto il miglio che corre tra Fratta e Teglio per guadagnar il tempo perduto. Giunto nella canonica mi perdeva tutti i giorni a passar in rassegna certe vedute di Udine che adornavano la parete dell’andito, e poi a gran fatica mi confinavano in uno studiolo, ove dopo l’esperienza dei primi giorni, tutto soleva essere rigorosamente sotto chiave a cagione delle mie petulanze. Peraltro mi divertiva nel disegnar sopra i muri la faccia del Piovano, con due boschi di sopracciglia ed un certo cappellone in testa, che non lasciavano alcun dubbio sulle intenzioni satiriche del pittore. Spesso, davanti queste mie esercitazioni artistiche, udiva per l’andito il passo prudente della Maria, la massaia del Piovano, che veniva a vedere dei fatti miei alla toppa della chiave. Allora io balzava allo scrittoio e coi gomiti ben distesi e col capo sulla carta arrotondava certi A e certi O che empivano mezza facciata, e che coll’aggiunta di altre quattro o cinque letteraccie più arabe ancora, fornivano ad esuberanza il mio compito giornaliero. Oppure anche mi metteva a gridare bi a ba, bi e be, bi o bo, con una voce così indemoniata, che la povera donna scappava quasi sorda in cucina. Alle dieci e mezzo entrava il Piovano, il quale mi dava alquante zaffate per gli sconci che vedeva sul muro, altre ne aggiungeva a conto della