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capitolo secondo. 63

zasse tanto a far la comica, che a poco a poco non sapea nemmen discernere in se stessa il vero dall’immaginato. Io poi, costretto sovente a tenerle il sacco, lo teneva con tanto mal garbo che si scopriva tosto il marrone; ma mai ch’ella perciò mostrasse dispetto o rincrescimento: sembrava che fosse già disposta a non aspettarsi di meglio da me, e che si credesse tanto superiore da non doversi le sue asserzioni porre in dubbio per la contraria testimonianza d’un terzo. Gli è vero che i castighi toccavano tutti a me; e che almeno per questo lato la sua imperturbabilità non aveva nulla di meritorio. Mi toccavano, pur troppo, frequenti e salati, perchè li miei spassi giornalieri con lei erano una continua infrazione ai precetti della contessa, e senza sindacare di chi fosse il torto, la colpa punita prima era la mia, perchè la più patente e recidiva. D’altra parte nessuno avrebbe osato castigare la contessina all’infuori di sua madre; e costei per solito non se ne dava pensiero più che d’una figliuola altrui. Per la Pisana c’era la donna dei ragazzi, e fino che non l’avesse dieci anni, la vigilanza materna si dovea limitare a pagare due ducati il mese alla Faustina. Dai dieci anni ai venti il convento, e dai venti in su la Provvidenza: ecco la maniera d’educazione che secondo la contessa dovea bastare, per isdebitarla di ogni dovere verso la prole femminile. La Clara era uscita di convento ancor tenerella per far l’infermiera alla nonna; ma la stanza della nonna appunto le tenea vece di monastero, e la differenza non istava altro che nei nomi. Quella cara contessa, abbandonata dalla gioventù e dalle passioni che pur le avevano dato sentore di qualche cosa che non fosse proprio lei, erasi talmente riconcentrata in se stessa e nella cura della propria salute temporale ed eterna, che fuori del rosario e d’una buona digestione, non trovava altre occupazioni che le convenissero. Se agucchiava calze era per abitudine, o perchè nessuno aveva la mano tanto leggera da