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faceva il dono d’uno sguardo affettuoso e d’una carezza, e un tal dono mi veniva da una vecchia che aveva veduto Luigi XIV! — Dico veduto, proprio veduto, perchè lo sposo della nobildonna Badoera, quel vecchio conte così ghiotto dei grammaestri e degli ammiragli, pochi mesi dopo il suo matrimonio era andato in Francia ambasciatore della Serenissima, e vi aveva condotto la moglie che per due anni era stata la gemma di quella Corte. Quella stessa donna poi tornata a Fratta avea serbato le eguali grazie dei modi e del parlare, l’eguale rettitudine di coscienza, l’eguale altezza e purità di sentimenti, l’uguale spirito di moderazione e di carità, sicchè anche perduto il fiore della bellezza avea continuato ad innamorare il cuore dei vassalli e dei terrazzani, come prima aveva innamorato quello dei cortigiani dì Versailles. Tanto è vero che la vera grandezza è ammirabile ed ammirata dovunque, e nè diventa nè si sente mai piccola per cambiar che faccia di sedile. — Io piangeva dunque a cald’occhi stringendo e baciando le mani di quella donna venerabile, e promettendomi in cuore di usare sovente della larghezza fattami di salire ad intrattenermi con lei, quando entrò la vera contessa, quella delle chiavi, e diede un guizzo d’indignazione vedendomi nel salotto contro i suoi precisi ordinamenti. Quella volta la strappata della cuticagna fu più lunga del solito, e accompagnata da un rabbuffo solenne e da un divieto eterno di mai più comparire in quelle stanze se non chiamato. Scendendo le scale dietro il muro, e grattandomi la coppa e piangendo questa volta più di rabbia che di dolore, udii ancora la voce della vecchiona che sembrava insoavirsi oltre all’usato per intercedere in mio favore, ma una strillata della contessa e una violentissima sbattuta dell’uscio serratomi dietro mi tolsero di capire la fine della scena. E così scesi una gamba dietro l’altra in cucina a farmi consolar da Martino.

Anche questa mia domestichezza con Martino spiaceva