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capitolo decimo. 491

legi dell’imbecillità e della podagra. Di qui a quindici giorni mi rivedrete. Allora la pace, la gloria, la libertà universale avranno cancellato la memoria di questi eccessi momentanei.

In queste parole il gran Napoleone aveva finito di vestirsi, e si mosse verso la camera vicina ove lo attendevano alcuni officiali superiori. Vedendo ch’egli nè era molto contento della mia visita, nè pareva disposto a badarmi oltre, io m’avviai mogio mogio giù per la scala, riandando il tenore di tutto quel colloquio. Non ci capii per verità molto addentro; ma pure que’ suoi gran paroloni di popolo e di libertà, e quel suo piglio riciso ed austero m’avevano annebbiato l’intelletto, e mi partii a conti fatti, che l’odio contro i patrizii veneziani superava d’assai perfino il risentimento contro i bersaglieri francesi. La tremenda disgrazia della contessa mi parve una goccia d’acqua, in confronto al mare di beatitudine che ci sarebbe venuto addosso pel valido patrocinio dell’esercito repubblicano. Quel cittadino Bonaparte mi pareva un po’ aspro, un po’ sordo, un po’ anche senza cuore, ma lo scusai pensando che il suo mestiere lo voleva pel momento così. E a questo modo lasciai a poco a poco darsi pace la morta, e tornai col pensiero ai vivi: cosicchè nella lettera che scrissi a Venezia per partecipare il triste caso alla famiglia ne affibbiai forse più la colpa all’improvvidenza delle venete magistrature e alla sciocca paura del popolo, che alla barbara sfrenatezza degli invasori. Il cappellano fu molto meravigliato di vedermi tornare a Fratta colle mani piene di mosche, e tuttavia più tranquillo e contento di quando n’era partito. Monsignore e il capitano, che s’erano raccovacciati in castello, udirono con terrore il racconto del mio colloquio col generale Buonaparte.

— L’avete proprio veduto? — mi chiese il capitano.

— Capperi se l’ho veduto! si faceva anzi la barba.