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488 le confessioni d’un ottuagenario.

neziane senza forza, senza dignità, senza consiglio; il popolo e i signori del paese spartiti in diverse opinioni le une più strane e fallaci delle altre. Ma moltissimi che giorni prima aveano gridato evviva agli Usseri d’Ungheria e ai dragoni di Boemia, plaudivano allora ai sanculotti di Parigi. Questo era il frutto della nullaggine politica di tanti secoli: non si credeva più di essere al mondo che per guardare; spettatori e non attori. Gli attori si fanno pagare, e chi sta in poltrona è giusto che compensi quelli che si muovono per lui.

Il generale in capite Napoleone Buonaparte (così lo chiamavano allora) dimorava in casa Florio. Chiesi di abboccarmi con lui, affermando di avere a fare gravissime comunicazioni sopra cose avvenute nella provincia, e siccome egli mestava in fin d’allora nel torbido coi malcontenti veneziani, così mi venne concessa un’udienza. Questo perchè non lo seppi che in appresso. Il generale era nelle mani del suo cameriere che gli radeva la barba; allora non disdegnava di farsi vedere uomo, anzi ostentava una certa semplicità catoniana, cosicchè al primo aspetto rimasi confortato d’assai. Era magro, sparuto, irrequieto; lunghi capelli stesi gli ingombravano la fronte, le tempie e la nuca, fin più oltre al collare del vestito. Somigliava appunto a quel bel ritratto che ce ne ha lasciato l’Appiani, e che si osserva alla villa Melzi a Bellaggio: dono del primo console presidente al vice-presidente, superba lusinga del lupo all’agnello. Solamente a quel tempo era più sfilato ancora, tantochè gli si avrebbero dati pochi anni di vita, ed anzi una tal sembianza di gracilità aggiungeva l’aureola del martire alla gloria del liberatore. Egli sacrificava la sua vita al bene dei popoli; chi non si sarebbe sacrificato per lui?

— Cosa volete, cittadino? — mi diss’egli ricisamente, fregandosi le labbra col pizzo dello sciugatojo.