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476 le confessioni d’un ottuagenario.

cancelliere di Fratta, e da poco in qua avogadore degli Uomini di Portogruaro. —

— Avogadore, avogadore! — borbottò il vice-capitano. — È lei che lo dice: ma spero che non vorrà torre sul serio lo scherzo d’una folla ubriaca: sarebbe troppo rischio per lei. —

Quella masnada di sgherri assentì del capo alle parole del principale; io sentii una scalmana venirmi su pel capo, e poco mancò che non dessi fuori in qualche enormezza, per dar loro a divedere quanto poco mi calesse di tali minaccie. Un alto sentimento della mia dignità mi trattenne dallo scoppiare, e risposi al vice-capitano che certamente io non era degno del grande onore impartitomi, ma che non intendeva scadere di più mostrandomi più dappoco che non fossi infatti. Or dunque vedesse lui quali concessioni fosse disposto a fare, perchè il popolo mio cliente s’avvantaggiasse della libertà nuovamente acquistata.

— Che concessioni, che libertà? io non ne so nulla, — rispose il vice-capitano. — Da Venezia non son venuti ordini; e la libertà è tanto antica nella serenissima Repubblica, da non esserci nessun bisogno che il popolo di Portogruaro l’inventi oggi stesso.

— Piano, piano con questa libertà della serenissima! — replicai io già addestrato a simili dispute pel mio noviziato padovano. — Se lei per libertà intende il libero arbitrio dei tre inquisitori di Stato son pronto a darle ragione; essi possono fare alto e basso come loro aggrada. Ma in quanto agli altri sudditi dell’eccellentissima signoria, le domando umilmente in qual lunario ha ella scoperto che si possano chiamar liberi?

— L’inquisizione di Stato è una magistratura provata ottima da secoli; — soggiunse il vice-capitano con una vocina malsicura, nella quale l’antica venerazione si contemperava colla peritanza attuale.