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capitolo nono. 451

formavano poi il tema a burrascose contese dintorno al focolare del castello. Il capitano provava come due e due fanno quattro, che le paure erano esagerate, e che la signoria avvisava saggiamente di ristare dai provvedimenti straordinarii, perche i Francesi anche con ogni buon vento in poppa, avrebbero dovuto impiegare tre anni al passaggio delle Alpi, e altri quattro ad un avanzamento dalla Bormida al Mincio. Numerava le linee di difesa, le forze dei nemici, i capitani, le fortezze; insomma, secondo lui, quella guerra o sarebbe finita al di là del monte; o al di qua sarebbe caduta in retaggio alla generazione seguente. Giulio Del Ponte e qualchedun altro che veniva da Portogruaro non erano di questo parere: secondo loro i vantaggi degli alleati eran ben lungi dall’assicurar completamente la Repubblica contro le esorbitanze dei Francesi, e questi di lì a due, di lì a tre mesi, poteva benissimo darsi che avessero già invasi gli Stati di terraferma, e lo stesso Friuli. Il conte e monsignore rabbrividivano di queste previsioni; e toccava poi a me distruggere i cattivi effetti di tante soverchie e precoci paure.

Così barcheggiando si venne alla primavera del 95. La Repubblica di Venezia avea gia riconosciuto solennemente il nuovo governo democratico di Francia, il suo rappresentante Alvise Querini aveva fatto al Direttorio la sua chiacchierata, e a saldare la recente amicizia s’era anzi dato lo sfratto da Verona al conte di Provenza. Il capitano diceva « Fanno benissimo. Pazienza ci vuole e non por mano subito alla borsa e alla spada. Vedete! le cose si vanno già raffreddando laggiù! Quelli che ammazzavano i preti, i frati ed i nobili l’hanno finita anch’essi sul patibolo: la crisi può dirsi nel decrescere, e la Repubblica se l’è cavata senza esporre a pericolo la vita d’un uomo. » Rispondeva Giulio « Fanno malissimo; ci metteranno i piedi sul collo; si tace ora per gridar più forte di qui a poco.