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capitolo nono. 433

vergogna del proprio aspetto toglieva ogni coraggio a’ suoi sguardi, ogni sicurezza alle sue parole. Il brio già attutito al soverchiar dell’amore, sforzava indarno il coperchio sepolcrale della disperazione; brillava a tratti come un fuoco fatuo di cimitero; e lo sforzo di volontà, che lo accendeva momentaneamente, ricadeva poco stante in un peggiore abbattimento. Aveva piaciuto per esso; per esso era stato amato; senz’esso dovea perire; egli lo sapeva, e infuriava fra sè di non poterne avvivare almeno un funebre lampo colle ceneri dell’anima sua. Morire sfolgorando, era omai la sua unica speranza d’amore e di vendetta; ma più si ostinava, e meno gli ubbidiva l’ingegno affiocato dalla malattia e dalla passione. Io rimasi costernato dagli ultimi sforzi d’un’anima moribonda che fra le rovine d’un corpo già fatto per lei simile a un sepolcro, anelava invidiosamente a quella parte di bene ch’era stata sua, e che le veniva rapita da una forza giovane, arrogante e spensierata. Mi pareva di vedere Lazzaro agonizzante di fame, che chiede agli epuloni le briciole della mensa, e non ottiene che scherno e ripulse. Ma fosse almeno stato così! Giulio avrebbe trovato un’ultima gioja nello sfogo d’un’ira giusta e magnanima; sarebbe morto colla fede che le sue parole, a vendetta della sua sciagura, avrebbero risonato eternamente nell’anima della infedele. Nulla di ciò invece: la Pisana non aveva per lui nè occhi, nè orecchi: egli moriva goccia a goccia, senza lusingarsi che il rantolo della sua maledizione avrebbe turbato un istante la felicità del sorriso di lei!

Durante quella lunga sera accumulai nel cuore tanta compassione per quel poveretto, che addussi al conte qualche pretesto per rimanere a Portogruaro, e lo lasciai partire soletto colla Pisana, la quale si maravigliò non poco di cotal mia stravaganza. La attribuì forse a gelosia, e mi buttò un’occhiatina che potea essere di conforto o di gra-

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