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capitolo nono. 421

mio dolore la vinse, e mi disse che a Venezia c’era persona la quale dovea saperne di ciò meglio che molti altri, e che io la conosceva, e che cercassi del dottore Lucilio Vianello, che certo mi avrebbe detto ogni cosa ch’io bramassi sapere intorno al giovane trevisano. Ma mi disse ciò arrossendo la poveretta, e raccomandandomi di non iscoprire altrui questo suo consiglio; e poi quando io le chiesi dove avrei potuto trovare il dottor Lucilio, mi rispose di non saperne nulla, ma che egli non avrebbe mancato di capitar qualche volta in piazza, ove era allora come adesso il grande ritrovo di tutti i Veneziani.

Infatti io tolsi commiato da lei, ringraziandola di tanta sua bontà, e piantatomi in piazza aspettai girando su e giù finchè diedi di naso nel signor Lucilio. Le gelosie non mi frullavano più pel capo, e pieno di zelo pel maggior bene di Amilcare lo accostai risolutamente. Egli o stentò a conoscermi o ne fece le viste, ma poi mi usò mille finezze, mi chiese conto de’ miei studi, della mia vita; e da ultimo mi domandò se avessi veduto la contessa e sua figlia. Io gli narrai tutto, e come le avessi trovate. Ed egli allora mi raccontò che la contessa s’era data sfrenatamente alla passione del gioco, come usavano le dame veneziane d’allora; che perdeva ogni giorno grosse somme di denaro, che gli usurai le stavano ai panni, ch’ella non pensava ad altro che a riacquistare quanto aveva perduto, con rischi più gravi e pericolosi. Il suo temperamento avea sempre peggiorato; tiranneggiava la figliuola peggio che mai, ed erano sette mesi che la poverina non usciva di casa che per andare a messa a san Zaccaria, ov’egli la vedeva una volta per settimana. E poi scompariva come un’ombra, e non la lasciavano nemmeno affacciarsi alla finestra perchè le avevano destinato una camera interna del palazzo. Quanto al poter penetrare fino a loro non avea mai potuto riescire; e sì che la fama acquistatasi grandissima nella sua profes-