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capitolo ottavo. 361

non mancava anche allora il ceto di mezzo, quello dei più, dei tentennanti, dei misurati, che nell’abbondare della mesata s’accomunava ai costosi piaceri dei nobili, e nella povertà degli ultimi del mese ricorreva alle ladre e petulanti baldorie degli altri. Dicevano male di questi con quelli e di quelli con questi; fra loro poi si beffavano di questi e di quelli, veri antesignani di quel medio ceto senza cervello e senza cuore che si credette poi democratico, perchè incapace di ubbidire validamente al pari che di comandare utilmente. Intanto i rivolgimenti francesi venivano a smuovere in qualche maniera i vuoti, i frivoli talenti di quella scolaresca. Il sangue bolle e vuol bollire ad ogni costo nelle vene giovanili; i giovani son come le mosche che senza capo seguitano a volare, a ronzare. Fra i patrizii s’ebbero i novatori scolastici che applaudirono; e i timidi chiettini che si spaventarono; dei plebei qualcuno ruggì alla Marat; ma gl’inquisitori gli insegnarono la creanza; la maggior parte impecorita nell’adorazione di san Marco, tumultuava contro i Francesi lontani, solita braveria di chi ossequia poi e serve i presenti. Quelli di mezzo aspettavano, speravano, gracchiavano: pareva loro che dai nobili il governo dovesse cader in loro per naturale pendìo delle cose: acchiappato che lo avessero, si argomentavano bene di non lasciarlo cadere più in giù. Ma non gridavano a piena gola; soffiavano, bisbigliavano come chi serba la voce e la pelle a miglior momento. Gl’inquisitori, si può ben credere, guardavano con mille occhi questo vario brulichio di opinioni, di lusinghe, di passioni; ogni tanto un calabrone che strepitava troppo, cadeva nell’agguato tesogli da qualche ragno. Il calabrone era trasportato in burchio a Venezia; e passato il Ponte dei Sospiri nessuno lo udiva nominare mai più. Con questi sotterfugii e giochetti di mano, ottimi a spaventare l’infanzia d’un popolo, credevano salvar la repubblica dall’eccidio soprastante.