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capitolo settimo. 353

monia nel mandare denari. Il pover uomo sospirava, pensando che per economia aveano relegato lui a Fratta, e che ciò nonostante consumavano più denari che non ne sembrassero bisognevoli ad uno splendido mantenimento di tutta la famiglia. Sospirava, dico, ma raggruzzolava nello scrigno semivuoto quei grami ducati, e ne faceva certi rotoletti che cadevano cogli altri nell’abisso di Venezia. Il fattore lo ammoniva, che andando di quel trotto le entrate di Fratta sarebbero in breve ipotecate per cinquant’anni avvenire. Ma rispondeva il padrone che non c’era rimedio, e con quella filosofia tiravano innanzi. Più felice almeno Monsignore non si avvedeva di nulla, e seguitava a mutare in polpe i capponcelli e le anitre delle onoranze.

Quanto a me, io avea finito i miei studii di umanità e di filosofia, un po’ alla zingaresca è vero, ma li aveva finiti. E nel sommario esame che sostenni, mi trovarono per lo meno tanto asino quanto coloro che li avevano percorsi regolarmente. S’avvicinava il momento che m’avrebbero dovuto mandare a Padova, ma le finanze del conte non gli consentivano questa munificenza, e giustizia vuole ch’io dia lode a chi si appartiene di una buona opera. Il padre Pendola non era uomo da mettersi a poltrire in un posto di maestro di casa sull’età dei cinquant’anni, quand’appunto l’ambizione si ristringe per diventare più alta ed ostinata. Cappellano e consigliere favorito di casa Frumier, aveva egli potuto accaparrarsi la stima dei molti preti e monsignori che la frequentavano: non gli mancavano nè le sante massime, nè i pronti ripieghi di coscienza per innamorare ambidue i partiti; e tanto bene vi riescì, e tanto seppe destramente mettere in mostra questo suo trionfo, che, venuta la cosa agli orecchi del vescovo, si diceva che questi ad ogni imbroglio che turbava la diocesi usasse sclamare: — Ah fossi io il padre Pendola! Oh avessi in Curia il padre Pendola! —