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342 le confessioni d’un ottuagenario.

pranzo i parenti di Fratta, per isvagarli da questi dispiaceri domestici, l’illustrissimo signor conte fu oltremodo inquieto di vedersi chiamar dal cognato in uno stanzino appartato. Ognivolta che gli accadeva di doversi dividere dal fido Cancelliere, si sa ch’egli rimaneva come una candela senza stoppino. Tuttavia fece di necessità virtù, e con molti sospiri seguì il cognato ov’egli lo voleva. Questi richiusa la porta a doppio giro di chiave, tirò giù le cortinette verdi della finestra, aperse con gran precauzione il cassetto più segreto dello scrittojo, ne trasse un piego, e glielo porse dicendogli:

— Leggete; ma per pietà silenzio! mi affido a voi perchè so chi siete. —

Il povero conte ebbe gli occhi coperti da una nuvola, fregò e rifregò colla fodera della veste le lenti degli occhiali più per guadagnare tempo che per altro, ma alla fine con qualche fatica riuscì a dicifrare lo scritto. Era un anonimo, uomo a quanto sembrava di grande autorità nei consigli della Signoria, che rispondeva confidenzialmente al nobile Senatore intorno alla grazia da implorarsi pel vecchio Venchieredo. Si stupiva prima di tutto dell’idea: non era quello il tempo che la Repubblica potesse sguinzagliare i suoi nemici più accaniti, quando appunto si occupava di spiarli ed a renderli impotenti per quanto era fattibile. I castellani dell’alta erano tutti male affetti alla Signoria; l’esempio del Venchieredo avrebbe servito a correggerli, fors’anche non bastava, e con soverchia indulgenza erasi preservata la famiglia di lui dagli effetti della condanna. Nulla è pernicioso più della potenza concessa agli attinenti dei nostri nemici; bisogna sempre tagliare il male nelle radici perchè non rigermogli. Solo di non aver fatto questo si pentiva la Signoria. Del resto, non parlava al senatore che era superiore ad ogni sospetto, e tratto in quella faccenda da suggestioni e preghiere altrui, ma