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tasse di lei. Un bel giorno le spiattellò chiare e tonde le probabili intenzioni di Raimondo: e anche quest’ultimo colpo non diradò per nulla quella nube, che da molti giorni si era raunata sulla fronte della donzella. Chinava le ciglia, sospirava, non diceva né sì né no. La mamma cominciò a credere che la fosse una stupida, come aveva sempre sospettato dentro di sé, vedendola grave, modesta e disforme in tutto da quello ch’ella era stata negli anni della giovinezza. Ma anche le stupide si scuotono a toccarle su quel tasto del marito; e la stupidità della Clara doveva essere veramente fuor di natura, per non muoversi nemmeno a ciò. Si aperse allora colla vecchia suocera, che era sempre stata la confidente della fanciulla, e la pregò d’ingegnarsi a farle capire i disegni della famiglia intorno a lei. La vecchia inferma parlò, ascoltò, e riferì alla nuora che la Clara non aveva intenzione di maritarsi, e che voleva star sempre con lei a vegliarla nelle sue malattie, a confortarla nella sua solitudine.

— Eh! questi son grilli da pettegola! — sclamò la contessa. — La vorrei vedere io che la seguitasse a fargli il muso duro a quel poverino, sicché egli trovasse un pretesto di cavarsela. Quando i genitori vogliono, il dovere della ragazza fu sempre quello di obbedire, almeno in questa casa; e non si vedranno novità, no, non si vedranno. Quanto a lei poi, signora, io spero che non la fomenterà questa pazzia, e che la vorrà ajutare me e il signor conte a far vedere alla ragazza qual’è il suo meglio. —

La vecchia accennò del capo che avrebbe fatto, e fu molto contenta che la nuora dopo quella gridata le uscisse fuori di camera. Ma non fu meno pronta per ciò a ritentare il cuore della Clara, per persuaderla di accettare lo sposo, che nobile e degno per ogni riguardo le si profferiva. La giovine si rinchiudeva nel suo silenzio, o rispondeva come prima, che Dio non la chiamava al matrimonio,