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capitolo settimo. 321

d’occhi non stava meno bene del reverendo, s’accorse tantosto che gatta ci covava; ma aveva un bel che fare di schiudersi un finestrello nell’animo di lui. La tonaca nera era d’un tessuto così fitto, così fitto, che gli sguardi ci spuntavano contro; e il giovinotto si vedeva costretto a lavorare coll’immaginazione.

Finalmente venne il giorno, che il padre Pendola lasciò spiegare alla contessa quel suo disegno così a lungo accarezzato. Egli avea saputo quanto gli occorreva sapere; avea preparato ciò che bisognava preparare; non temeva più, anzi bramava che la contessa ricorresse a lui per poterle con bel garbo rispondere: «Signora mia, questo io prometto a lei, se ella promette quest’altro a me!» — Ora, domanderete voi, che cosa desiderava l’ottimo padre? — Una minuzia, figliuoli, una vera minuzia! Siccome maritando il signor Raimondo colla contessina Clara, il precettore diventava una bocca inutile nel castello di Venchieredo; così egli aspirava al posto di maestro di casa presso il Senatore. La dama Frumier aveva fama di divota; egli l’aveva toccata sopra questo tasto, e il tasto avea corrisposto bene: restava alla cognata il compier l’opera, se pur voleva vedere accasata la figlia in modo tanto onorevole. Il povero padre era stanco, era vecchio, era amante dello studio; quello era un posto di riposo che gli sarebbe sembrato la vera anticamera del paradiso; il prete che lo occupava allora desiderava una cura d’anime; potevano accontentarlo e insieme accontentar lui, che non si sentiva più nè lena nè sapienza bastevoli per lavorare operosamente nella vigna del Signore. S’intende sempre che l’ottimo padre insinuò queste cose in maniera, da sembrare che la contessa gliele strappasse dalle labbra, e non che egli ne pregasse lei.

— Oh, santi del paradiso! — sclamò la signora — qual consolazione per mio cognato! che ajuto di spirito per la