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capitolo settimo. 311

bello: per cui le vecchiette gli perdonavano le sue distrazioni, e il monsignore, essendo padre spirituale di una fra queste, doveva di necessità perdonargli anche lui. Il marchesino Fessi, il conte Dall’Elsa e qualche altro aristocratico zerbino della città corteggiavano essi pure la Clara. Ma l’assedio galante di questi signori non era tanto discreto; le occhiate erano il meno; si sbracciavano in inchini, in complimenti, in lodi, in profferte. Facevano gli scherzosi col braccio arrotondato sul fianco e la gamba protesa; quando poi indossavano il vestito gallonato delle domeniche, il loro brio non aveva più freno. Giravano fra le seggiole delle signore, si curvavano su questa e su quella, consigliavano ora un giocatore ed ora un altro; ma ponevano somma cura di non restar invischiati in nessuna partita. I giovani abati e il professor Desalli in particolare, sedevano assai volentieri qualche quarto d’ora vicino alla Clara; il loro abito li proteggeva dalle maligne calunnie, e il contegno della zitella era tale che molto si affaceva colla gravità sacerdotale.

Insomma la bionda castellana di Fratta avea messo in subbuglio tutte le teste della conversazione; ed ella ebbe la strana modestia di non accorgersene. Giulio Del Ponte, che non era il meno infervorato, si maravigliava e si stizziva di tanto riserbo; egli andava anzi più oltre, e benchè non ne parasse nulla, avea concepito qualche sospetto sopra Lucilio. Infatti soltanto un cuore già occupato da un grande affetto, poteva resistere freddamente a tutta quella giostra d’amore che torneava per lui. E chi mai poteva aver fatto breccia colà, se non il dottorino di Fossalta? — Così la pensava il signor Giulio; e dal pensare al bisbigliarne qualche cosa, il tratto fu più breve d’un passo di formica.

Cominciavano a pigliar fiato cotali mormorazioni, quando il padre Pendola presentò il giovine Venchieredo