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capitolo sesto. 299

furore della disperazione alla stanchezza del dolore, e la accolsi con aspetto melanconico e quasi pietoso. Quest’ultimo colore della mia fisonomia non le piacque per nulla; finse di credere ch’io le avessi dimostrato che non abbisognavo di lei, e mi piantò lì come un cane. Oh se la mi avesse buttato le braccia al collo! Io sarei stato abbastanza credulo o codardo per stringermela al cuore, e dimenticare i crudeli momenti che la mi aveva fatto passare. Fu forse meglio così; poichè al giorno dopo il dolore mi si sarebbe presentato come nuovo, e m’avrebbe sorpreso più debole di prima. Ad onta della mia inferma salute, tutte le volte che la famiglia andò a Portogruaro io non mancai di accompagnarla; e colà ogni sera io assaporava con amara voluttà la certezza della mia sventura. Mi rinforzava nell’anima; ma il corpo ne soffriva mortalmente, e certo non avrei potuto continuare un pezzo quella vita. Martino mi domandava sempre che cosa avessi da sospirar tanto; il Piovano si maravigliava di non trovare i miei latinetti così corretti come per l’addietro, ma non aveva coraggio di rimproverarmene, tanto la mia sfinitezza lo moveva a compassione; la contessina Clara mi stava sempre dietro con carezze e con premure. Io dimagriva a vista d’occhio, e la Pisana fingeva di non accorgersene, o se lasciava cadere sopra di me uno sguardo pietoso, lo ritirava tosto. Ella intendeva punirmi così della mia superbia. Ma era forse superbia?.....

Io moriva di crepacuore e pur compiangeva lei, cagione della mia morte. La compiangeva e l’amava, mentre avrei dovuto odiarla, disprezzarla, punirla. Dicano tutti se era superbia la mia. In quel torno accadde per fortuna che la signora contessa ammalasse: dico per fortuna, perchè così rimasero interrotte le gite a Portogruaro e questa fu la ragione perchè io non morii. Lucilio seguitava a praticare in castello, ora tanto più che ve lo chiamava il suo ministero di medico; ma la Pisana non era di gran lunga così