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dei più giovani; era invece la fiamma della vita, che rattizzata in lui da un potente prestigiatore, non potendo scaldargli le fibre già agghiacciate del cuore, gli empiva il capo di fumo e gli infervorava la lingua. — Si crederebbe quasi ch’io prendessi sul serio le sofisticherie che s’impasticciano per passar l’ora; — andava egli pensando mentre aspettava la cena nella classica poltrona. — E sì che da quarant’anni io non ho odorato la polvere venerabile del collegio! Sarà forse vero che gli uomini non sono altro che eterni fanciulli! — Eterni, eterni! — mormorava il vecchio accarezzandosi le guance flosce e grinzose — volesse il Cielo! —

Dopochè Lucilio era sopraggiunto ad attizzare l’entusiasmo dei cortigiani del senatore, coloro che sedevano ai tavolini del gioco, le signore principalmente, soffrivano delle frequenti distrazioni. Quel chiasso continuo di domande, di risposte, di accuse e di difese, di scherzi, di risate, di esclamazioni e di applausi moveva un poco la curiosità, e, diciamolo, anche l’invidia dei giocatori. I divertimenti del quintiglio e le commozioni del tresette erano di gran lunga meno vibrate; quando un cappotto aveva originato le solite ironiche congratulazioni, le solite minaccie di rivincita, tutto finiva lì, e si tornava come rozze di vettura al monotono andare e venire della partita. Invece in quel cantone della sala la conversazione s’avvicendava sempre varia, allegra, generale, animata. Gli orecchi cominciarono a tendersi verso colà, e gli occhi ad invetrarsi sulle carte. — Ma signora, tocca a lei. — Ma dunque non ha capito la sfida! — Scusi, ho un po’ di mal di capo, ovvero: — Non ho badato; aveva la testa via! — Così si bisticciavano da un lato all’altro dei tavolini, e le colpevoli si rimettevano, sospirando a giocare. Lucilio ci entrava non poco in tutti quei sospiri, ed egli lo sapeva. Sapeva l’effetto da lui prodotto sulla conversazione del senatore, e se ne riprometteva di rim-