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fica non dava grandi esempi nè di pietà, nè di castità, nè delle altre virtù comandate specialmente al clero. Un cotale rilassamento delle discipline canoniche, e l’indifferenza dogmatica che lo cagionava, non potevano garbare ai veri preti; dico a coloro che avevano studiato con cieca fiducia la Somma di san Tommaso, ed erano usciti di seminario colla ferma persuasione della verità immutabile della fede, e della santità del proprio ministero. Costoro, meno proprii per la loro rigidezza di coscienza e per l’austerità delle maniere al consorzio della gente signorile, e ai destreggiamenti morali della città, si adattavano mirabilmente al patriarcale governo delle cure campagnuole. La montagna è il solito semenzajo del clero forense, e questo partito ch’io chiamerei tradizionale si afforzava e si rinnovava, massimamente nelle frequenti vocazioni della gioventù di Clausedo, che è un grosso paese alpestre della diocesi. I secolareschi invece (così dagli avversari venivano designati quelli che per opinioni e costumi si accostavano alla sbrigliatezza secolare) uscivano dalle comode famiglie della città e della pianura. Nei primi la gravità, il riserbo, la credenza, se non l’entusiasmo e l’abnegazione sacerdotale, si perpetuavano da zio in nipote, da piovano in cappellano; nei secondi la coltura classica, la libertà filosofica, l’eleganza dei modi, e la tolleranza religiosa erano instillate dai liberi colloquii dei crocchi famigliari; si facevano preti o spensieratamente per ubbidienza, o per golaggini d’una vita comoda e tranquilla. Si i primi che i secondi avevano i loro rappresentanti, i loro difensori nel seminario, nella curia e nel capitolo; a volte quelli, a volte questi aveano soverchiato; ed ogni vescovo che si succedeva nella diocesi, era accusato di favorire o i secolareschi o i clausetani. Clausetani e secolareschi si osteggiavano a vicenda; gli uni accusati d’ignoranza, di tirannia, di nepotismo, di taccagneria; gli altri di scostumatezza, di miscredenza, di cattivo esempio, di mondanità. La città par-