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capitolo sesto. 271


lorcio e pidocchioso. Una volta usciti dalle porte della città (le aveano costruite strette strette come se stessero in aspettativa delle gondole, e non delle carrozze e dei carri di fieno) essi somigliavano pesci fuori d’acqua, e Veneziani fuori di Venezia. Fingevano di non conoscere il frumento dal grano turco, benchè tutti i giorni di mercato avessero piene di mostre le saccoccie; si fermavano a guardar gli alberi come i cani novelli, e si maravigliavano della polvere delle strade, quantunque sovente le loro scarpe accusassero una diuturna dimestichezza con quella. Parlando coi campagnuoli per poco non dicevano: voi altri di terraferma! — Infatti Portogruaro era nella loro immaginativa una specie di isola ipotetica, costruita ad immagine della serenissima dominante, non già in grembo al mare, ma in mezzo a quattro striscie d’acqua verdastra e fangosa. Che non fosse poi terraferma lo significavano alla lor maniera le molte muraglie, e i campanili e le facciate delle case che pencolavano. Credo che per ciò appunto ponessero cura a piantarle sopra deboli fondamenti.

Ma quelle che erano proprio veneziane di tre cotte erano le signore. Le mode della capitale venivano imitate ed esagerate con la massima ricercatezza. Se a san Marco i toupè si alzavano di due oncie, a Portogruaro crescevano un paio di piani; i guardinfanti vi si gonfiavano tanto, che un crocchio di dame diventava un vero allagamento di merletti di seta e di guarnizioni. Le collane, i braccialetti, gli spilloni, le catenelle, inondavano tutta la persona; non voglio guarentire che le gemme venissero nè da Golconda nè dal Perù, ma cavavano gli occhi, e bastava. Del resto quelle signore si alzavano a mezzodì, impiegavano quattro ore alla toelette, e nel dopopranzo si facevano delle visite. Siccome a Venezia le grandi conversazioni erano di teatri, d’opere buffe e di tenori, esse si tenevano obbligate a discorrere di questi stessi argomenti, e così il tea-