Pagina:Le confessioni di un ottuagenario I.djvu/292


capitolo sesto. 265

ridicoli. Dopo un anno di continue dispute, nelle quali il Maggior Consiglio appoggiò sempre indarno il voto dei riformatori, si trasse in mezzo il serenissimo Doge. La sua proposta fu di delegare l’esame dei difetti accusati negli ordini repubblicani a un magistrato di cinque correttori; e la convenienza di un tal partito, che si riduceva a nulla, fu da lui appoggiata alle ragioni stesse, con cui un accorto politico avrebbe provato la necessità di riformar tutto e subito. Il Doge parlò a lungo delle monarchie d’Europa fatte potenti a scapito delle poche repubbliche; da ciò dedusse il bisogno della concordia e della stabilità. « Io stesso » aggiungeva egli nel suo patriarcale veneziano,« io stesso essendo a Vienna durante i torbidi della Polonia udii più volte ripetere: Questi signori Polacchi non vogliono aver giudizio; li aggiusteremo noi. — Se v’ha Stato che abbisogni di concordia, gli è il nostro. Noi non abbiamo forze; non terrestri, non marittime, non alleanze. Viviamo a sorte, per accidente, e viviamo colla sola idea della prudenza del governo.» Il Doge parlando a questo modo mostrava a mio credere più cinismo che coraggio; massime che per solo riparo a tanta rovina non sapea proporre altro che l’inerzia, e il silenzio. Gli era un dire: “Se smoviamo un sasso, la casa crolla! non fiatate non tossite per paura che ci caschi addosso”. Ma il confessarlo in pieno Consiglio, lui, il primo magistrato della Repubblica, era tale vergogna che doveva fargli gettare come un’ignominia il corno ducale. Almeno il procurator Giorgio Pisani avea gridato che si avvisasse ai cambiamenti necessari negli ordini repubblicani, e che se fossero giudicati impossibili ad effettuarsi, se ne consegnasse in pubblico atto la memoria, perchè i posteri compiangessero l’impotente sapienza degli avi, ma non ne maledicessero la sprovvedutezza, non ne sperdessero al vento le ceneri. Il Maggior Consiglio accettò invece il parere del doge; e i cinque