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capitolo quinto. 245

posposto ad un girarrosto. Il conte mi volgeva gli occhi dolci, e la contessa poi non finiva mai di accarezzarmi la nuca. Giustizia tarda e meritata.

Mentre la brigata si sbracciava a farmi la corte, crebbe il romore di fuori improvvisamente, e Marchetto il cavallante, col fucile in mano e gli occhi sbarrati, precipitò nel tinello. — Chi è, chi non è? — Fu un alzarsi improvviso, un gridare, un domandare, un rovesciarsi di seggiole e di candellieri. — C’era che quattro uomini, per un condotto d’acqua rimasto asciutto, erano sbucati dietro la torre; che erano saltati addosso a lui e a Germano, che costui con due coltellate nel fianco doveva essere a mal partito, e che egli avea fatto appena tempo di scappare serrandosi dietro le porte. A queste notizie lo strillare, e il rimescolarsi crebbe di tre tanti; nessuno sapeva cosa si facesse; parevano quaglie insaccate allo scuro in un canestro, che danno del capo qua e là alla rinfusa senza cognizione e senza scopo. Lucilio si sfiatava a raccomandare la quiete e il coraggio, ma era un parlare ai sordi. La sola Clara lo udiva, e cercava aiutarlo col persuadere la contessa a farsi animo e a sperare in Dio.

— Dio, Dio! è proprio tempo di ricorrere a Dio! — sclamava la signora — chiamateci il confessore!... Monsignore, lei pensi a raccomandarci l’anima.

Il canonico di Sant’Andrea, cui erano rivolte queste parole, non aveva più anima per sé; figuratevi se avea intenzione o possibilità di raccomandare quella degli altri! In quel momento s’udirono molte schioppettate, e insieme grida e minaccie di gente che sembrava azzuffarsi nella torre. Lo scompiglio non conobbe più limiti. Le donne di cucina capitarono da un lato, le cameriere, la Pisana e i servi dall’altro; il capitano entrò più morto che vivo, sostenuto dalla moglie, e gridando che tutto era perduto. S’udivano di fuori le strida e le preghiere delle famiglie di Fulgenzio