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gionamenti; e peggio poi quando alcuna delle scolte veniva a riferire di qualche romore udito, di qualche movimento osservato nelle vicinanze del castello. Lucilio, dopo fatta una visita alla vecchia contessa, e aver coonestato anche lui con una panchiana l’assenza della Clara, era tornato a confortare quei poveri diavoli. Scrisse allora, e fece firmare dal conte una lunga e pressantissima lettera al vice-capitano di Portogruaro, e domandò licenza alla compagnia d’andare egli stesso in persona a portarla. Misericordia! non lo avesse mai detto! La contessa gli si gettò quasi ginocchione dinanzi; il conte lo abbrancò pel vestito così furiosamente che gliene strappò quasi una falda; i canonici, la cuoca, le guattere, i servitori lo attorniarono d’ogni lato come ad impedirgli d’uscire. E tutti con occhiate, con gesti, con monosillabi o con parole, s’ingegnavano di fargli capire che partir lui era lo stesso che volerli privare dell’ultima lusinga di salute. Lucilio pensò a Clara, e pur decise di rimanere.

Tuttavia si richiedeva alcuno che s’incaricasse della lettera, e di nuovo gettarono gli occhi sopra di me. Giovandomi della confusione generale io era sempre stato nella camera della Pisana, sopportando i suoi rimbrotti per la fazione extra muros di cui io l’aveva defraudata. Ma appena mi chiamarono, ebbi l’accortezza o la fortuna di farmi trovar sulla scala. M’empirono il capo d’istruzioni e di raccomandazioni, mi cucirono nella giacchetta il piego, mi imbarcarono sulla solita tavola, ed eccomi per la seconda volta impegnato in una missione diplomatica. Sonavano allora per l’appunto le ore dieci di notte, e la luna mi dava negli occhi con poca modestia; due cose che mi cagionavano qualche fastidio, la prima per le streghe e le stregherie raccontatemi da Marchetto, la seconda per la facilità che ne proveniva di poter essere osservato. Contuttociò ebbi la fortuna di giungere sano e salvo sui prati. Tremava un pocolino dapprincipio; ma mi rassicurai strada facendo, e nell’en-