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capitolo quinto. 237

comparsa di Lucilio fu un raggio di sole in mezzo ad un temporale. Un oh! di maraviglia, d’ansietà e di piacere gli risonò intorno in coro, e poi tutti si fermarono a guardarlo senza domandargli nulla, quasi dubitassero s’ei fosse un corpo, o un fantasma. Toccò dunque a lui aprir la bocca pel primo; e le parole di Mosè quando tornava dal monte non furono ascoltate con maggior attenzione delle sue. Martino avea intromesso anch’egli di grattare, ma non arrivando a capir nulla dei discorsi che si facevano, finì coll’impadronirsi di me e farsi contar a cenni una parte della storia.

— Prima di tutto ho buone notizie della contessina Clara; — diceva intanto il signor Lucilio. — Ella era uscita nei campi verso Fossalta incontro alla signora contessa come costuma, e impedita di rientrare in castello dai bravacci che lo guardavano da tutte le parti, io stesso ebbi l’onore di menarla in salvo nel mulino della prateria. —

Quei bravacci che attorniavano il castello d’ogni lato, guastarono assai la buona impressione che doveva esser prodotta dalla notizia della Clara. Tutti sorrisero colle labbra al colombo della buona nuova, ma negli occhi lo sgomento durava peggio che mai e non sorrideva per nulla.

— Ma dunque siam proprio assediati come se fossero turchi coloro! — sclamò la contessa, giungendo disperatamente le mani.

— Si consoli che l’assedio non è poi tanto rigoroso, se io ho potuto penetrare fin qui; — soggiunse Lucilio. — Gli è vero che il merito è tutto del Carlino, e che se non lo avessi incontrato lui, difficilmente avrei potuto rientrarvi così presto e farmi gettare la tavola da Marchetto. —

Gli occhi della brigata si volsero allora tutti verso di me con qualche segno di rispetto. Alla fine capivano che io era buono ad altro che a girare l’arrosto, ed io godetti dignitosamente di quel piccolo trionfo.