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capitolo quinto. 227

castello erano una razza perversa di contrabbandieri, che egli aveva precetto di tenerli ben chiusi finchè avessero consegnati i colpevoli e le merci trafugate, e che in quanto alla contessina, ci pensasse lui giacchè l’aveva a braccio. Lucilio alzò la mano per menare uno schiaffo a quell’impertinente; ma si pentì a mezzo, e si torse rabbiosamente i mustacchi col gesto favorito del capitano Sandracca. Il meglio che gli restava a fare era di uscire da quel subbuglio, e menare la sua compagna in qualche sicuro ricovero ove passasse la notte. La Clara si oppose dapprima a una tale deliberazione, e volle ad ogni patto giungere fin sul ponte per vedere se veramente era rotto. E Lucilio ve la accompagnò, per quanto gli sembrasse pericoloso avventurarsi con una donzella fra que’ manigoldi avvinazzati, che gavazzavano in piazza. Ma non voleva lo si accagionasse nè di aver mancato di coraggio, nè di aver ommesso cura alcuna per riaccompagnare la Clara in casa sua. Però osservate le rovine del ponte, e chiamato inutilmente Germano un paio di volte, convenne loro darsi fretta a partire, perchè lo schiamazzo cresceva sempre, e la sbirraglia cominciava ad affollarsi e a provocarli con beffe ed insulti. Lucilio sudava per la fatica durata a moderarsi: ma la briga maggiore era quella di trarre in salvo la donzella, e in tal pensiero diede giù per una stradicciuola laterale del villaggio, e girando poi verso la strada di Venchieredo, giunse a gran passi trascinandosela dietro sulle praterie dei mulini.

Là si fermò per farla prender fiato. Ella sedette stanca e lagrimosa sul margine d’una siepe, e il giovine si curvò sopra di lei a contemplare quelle pallide sembianze, sulle quali la luna appena sorta pareva specchiarsi con amore. I negri fabbricati del castello sorgevano rimpetto a loro, e qualche lume traspariva dalle fessure dei balconi per nascondersi tosto come una stella in cielo tempestoso. L’oscuro fogliame dei pioppi stormeggiava lievemente; e il baccano