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226 le confessioni d’un ottuagenario.

bicchiere ai curiosi. Costoro, un po’ selvatici da principio, s’intesero benissimo con lui con quel muto ed espressivo linguaggio. E gli abbeverati chiamavano compagnia, e questa cresceva, si rinnovava e beveva sempre più. Tantochè, mesci e rimesci, in capo ad una mezz’ora la sbirraglia di Venchieredo era diventata una sola famiglia col contadiname del villaggio; e l’oste non rifiniva dal portare a cielo la splendidezza e la rara puntualità del degnissimo capo di Cento delle cernide di Venchieredo. Come si può ben credere, tanta munificenza non era nè arbitraria nè senza motivo. Il padrone gliel’avea suggerita per tener in quiete la popolazione, e distoglierla dal prender partito contro di loro a favore dei castellani. Gaetano adoperava da furbo; e le mire del principale aveano ben servito. Se avesse voluto, avrebbe fatto gridare da trecento ubriachi: — Viva il castellano di Venchieredo! E Dio sa qual effetto avrebbe prodotto nel castello di Fratta il suono minaccioso di questi gridi.

Quando Lucilio e la Clara posero piede nell’osteria, la baldoria era al colmo. La giovine castellana avrebbe avuto il crepacuore di veder in festa coi nemici della sua famiglia i più fidati coloni; ma la non ci badava, e la sorpresa e lo sgomento per tutto quel parapiglia, le impedivano dal vederci entro chiaro. Temeva qualche grave pericolo pei suoi, e le doleva di non esser con loro a dividerlo, non pensando che se pericolo c’era per essi, asserragliati ben bene dietro due pertiche di fossato, più grave doveva essere per lei, difesa da un unico uomo contro quella canaglia sguinzagliata. Lucilio per altro non era di tal animo da lasciarsi imporre da chicchessia. Egli andò difilato a Gaetano, e gli ordinò, con voce discretamente arrogante, di fare in maniera che la contessina potesse entrare in castello. La prepotenza del nuovo arrivato e il vino che aveva in corpo, fecero che il capo di Cento la portasse, per modo di dire, ancor più cimata del solito. Gli rispose che in