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206 le confessioni d’un ottuagenario.

voi avrete quello di giudicar noi e voi dopochè avrò parlato.

Non mi ricordo più quanti, ma certo pochissimi giorni dopo l’abboccamento del castellano di Venchieredo col Conte, il paese di Fratta fu verso sera turbato da un’improvvisa invasione. Erano villani e contrabbandieri che scappavano, e dietro a loro cernide, buli e cavallanti che scorazzavano alla rinfusa, sbraitando sulla piazza, percotendo malamente i contadini che incontravano, e facendo il più gran subbuglio che si potesse vedere. Al primo sussurrare di quella gentaglia la contessa, ch’era uscita con monsignore di Sant’Andrea e colla Rosa per la sua passeggiata del dopopranzo, s’affrettò a rinchiudersi in castello, e lì fece svegliare il marito perchè vedesse cos’era quella novità. Il conte, che da una settimana non potea dormire che con un occhio solo, scese precipitosamente in cucina; in breve tempo il cancelliere, monsignor Orlando, Marchetto, Fulgenzio, il fattore e il capitano gli furono intorno colla cera più spaventata del mondo. Oramai ognuno aveva capito che non sarebbero tornati con tanta facilità alla calma d’una volta; e ad ogni nuovo segno di burrasca la paura raddoppiava, come nell’animo del convalescente ai sintomi d’una recidiva. Anche quella sera toccò al capitano Sandracca e a tre de’ suoi assistenti fare il cuor del leone, e uscire alla scoperta. Ma non passarono cinque minuti ch’essi erano già tornati colla coda fra le gambe, e con nessuna volontà di ritentar l’esperimento. Quella masnada che tumultuava in piazza era la sbirraglia di Venchieredo, e non pareva disposta per nulla alla ritirata. Gaetano dal quartier generale dell’osteria giurava e spergiurava che avrebbe messo a pezzi i contrabbandieri, e che quelli che si erano rifugiati in castello l’avrebbero pagata più cara degli altri. Egli pretendeva che lì in paese fosse una lega stabilita per frodare i diritti del Fisco, e che il cappellano ed il conte ne