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186 le confessioni d’un ottuagenario.

alle fessure che lo trapanavano. Lucilio ed il Partistagno si fermarono quella sera al castello più tardi del solito; e non ci volle meno delle loro risate per mettere in calma i nervi della contessa, la quale per quella inimicizia tra lo Spaccafumo e il conte di Venchieredo vedeva già in fiamme tutta la giurisdizione di Fratta.

Il giorno dopo che era domenica, furono ben altre novità in paese. Alle sette e mezza, quando la gente tornava dalla prima Messa di Teglio, s’udì un grande scalpito di cavalli: e poco stante il signore di Venchieredo con tre dei suoi buli comparve sul piazzale. Gli era un uomo rosso, ben tarchiato, di mezza età; nei cui occhi non si sapea bene se prevalessero la furberia o la ferocia, superbo poi ed arrogante più di tutto, e questo lo si indovinava dal portamento e dalla voce. Fermò il cavallo di botto, e chiese con mal garbo ove abitasse il reverendo cappellano di Fratta. Gli fu additata la canonica, ed egli vi entrò con piglio da padrone, dopo aver affidato il palafreno a Gaetano che gli veniva alle coste. Il cappellano aveva finito poco prima di farsi la barba, e stava allora in balìa della fantesca che gli radeva la chierica. La cucina era il loro laboratorio; e il pretucolo, riavuto un poco dalla paura del giorno prima, scherzava colla Giustina raccomandandole di tondergli bene il cocuzzolo, non come all’ultima festa, che tutta la chiesa erasi messa a ridere quand’egli s’era tolto di capo la berretta quadrata. La Giustina dal suo lato ci adoperava tanto studio, che non le rimaneva tempo da rispondere a quei motteggi; ma tondi di qua e radi di là, la chierica s’allargava come una macchia d’olio su quella povera testa da prete; e benchè egli le avesse dato il precetto di non tenerla più grande d’un mezzo ducato, oggimai non v’avea più moneta di zecca che bastasse a coprirla.

— Ah Giustina! Giustina! — sospirava il cappellano, palpandosi colla mano i limiti della nuova tonsura — mi pare che siamo andati un po’ vicini a quest’orecchio.