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capitolo quarto. 159


quello che gli era negato dalla giustizia obliqua, o ignorante, o vendereccia del giudice. V’era per esempio uno statuto che accordava piena fede in causa ai libri dei mercanti e dei gentiluomini; ma come dovevano afforzar gli avversari le loro prove, se non avevano la ventura di possedere tutti i quarti in regola, o d’essere iscritti alla matricola dei negozianti? — Regali e protezioni: ecco i due articoli suppletorii che compensavano l’imperfezione dei codici. Alle volte anco il giudice, dalla multa inflitta al reo, percepiva la sua porzione; e contro quei giudici che si mostrassero un po’ corrivi a tale specie di entrata, non soccorreva altro rimedio che la minaccia o diretta del reo se questi era potente, o invocata da un più potente se il reo era umile. Spesso anche il giudice s’accontentava d’intascar la sua parte sotto la tavola, e firmava un decreto d’innocenza, beato di schivare fatica e pericolo. Ma questa felice abitudine, che colla venalità privata risparmiava almeno la giustizia pubblica, non veniva sofferta che da quei giurisdicenti tagliati alla veneziana, che non erano tanto rapaci da far a metà coi loro ministri della lana tosata ai colpevoli.

Il signor Antonio Provedoni era ossequioso alla nobiltà per sentimento, non servile per dappocaggine. La sua famiglia avea camminato sempre per quella via, ed egli non pretendeva di cambiare l’usanza. Però quel suo ossequio, prestato ma non profuso, lo facea guardar dalla gente con occhio di rispetto; e cosí l’andava allora, che il non far pompa di vigliaccheria era riputato grande valore di animo. Pure con ciò non voglio dire ch’egli resistesse alla smoderatezza dei castellani vicini; solamente le andava incontro colle offerte, ed era molto. Lamentava poi fra sè quelle soperchierie, come un segno, secondo lui, che la vera nobiltà mista di grandezza e di cortesia precipitava a capitombolo: sorgevano le avarizie, le prepotenze nuove a confonderla colla sbirraglia. Ma mai che uno di questi lamenti sbucasse