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cenza o ai colloqui d’amore. Il mormorio dell’acqua rendeva armonico il silenzio, o raddoppiava l’incanto delle nostre voci fresche ed argentine. Quando sedevamo sulla zolla più verde e rigonfia, il verde ramarro fuggiva sull’orlo della siepe vicina, e di là si volgeva a guardarci, quasi avesse voglia di domandarci qualche cosa, o di spiare i fatti nostri. Per quelle pose tanto gradevoli noi sceglievamo quasi sempre una sponda della fiumiera, dove essa dopo un laberinto di giravolte susurrevoli e capricciose si protende diritta per un buon tratto queta e silenziosa, come una matterella che d’improvviso si sia fatta monaca. Il meno rapido pendio la calmava dalla sua correntia, ma la Pisana diceva che l’acqua, come lei, era stanca di menar le gambe e che bisognava imitarla e sedere. Non crediate peraltro che stesse tranquilla a lungo la civettuola. Dopo avermi fatto qualche carezza od essersi arresa al mio ruzzo di giocarellare secondo il tenore dell’estro, si levava in piedi non curante e dimentica di me come non la mi avesse mai conosciuto, e si protendeva sull’acqua a specchiarvisi dentro, o vi sciaguattava entro colle braccia, o si ficcava nella fratta a cercarvi chiocciole da farne braccialetti e collane, senza curarsi allora se il guarnellino si sciupava, o se le maniche o le scarpine si immollavano. Io la chiamava allora e l’ammoniva, più per golaggine di averla ancora a’ miei trastulli che per rispetto alle sue vesti; ma la non si dava neppur pensiero di rispondere. Capace di disperarsi se le si sconciava una maglia del collaretto nell’accondiscendere ai capricci altrui, avrebbe rotto e stracciato tutto, compresi i suoi lunghi e bei capelli neri, e le sue guance rosee e rotondette, e le sue manine brevi e polpute, se i capricci da accontentarsi erano i suoi. Qualche volta, per tutto il resto della passeggiata, non giungeva più a stornarla da que’ suoi giuochi gravi, solitari e senza fine. Ella si ostinava per mezz’ora a voler bucare coi denti e colle