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102 le confessioni d’un ottuagenario.

Ognuno converrà peraltro, che se l’animo suo era difettivo di quella parte sensibile e quasi femminile dove allignano la vera gentilezza e la pietà, un potente intelletto si richiedeva a sostenerlo così com’era, superiore affatto per larghezza di vedute e per potenza d’intenzione all’umile sorte che gli parea preparata dal caso della nascita e dalle condizioni meno che modeste. La sua fronte, vasto nascondiglio di grandi pensieri, saliva ancora oltre i capelli finissimi che ne ombreggiavano la sommità; gli occhi infossati e abbaglianti cercavano più che il volto l’animo e il cuore della gente; il naso diritto e sottile, la bocca chiusa e mobilissima dinotavano il forte proposito e il segreto e perpetuo lavorìo interiore. La sua statura volgeva al piccolo come del maggior numero dei veri grandi; e la muscolatura asciutta ma elastica porgeva gli strumenti del corpo quali si convenivano ad uno spirito turbolento ed operoso. In tutto poteva dirsi bel giovine; ma la folla ne avrebbe trovato mille più belli di lui, o non lo avrebbe almeno distinto fra i primi. Gli è vero che una tal quale eleganza, e quasi un presentimento di quella semplicità inglese che doveva prender il posto delle guarnizioni e della cipria, regolava la maniera del suo vestito; e ciò avrebbe supplito alle comuni fattezze per renderlo a tutti notevole. Non usava nè perrucca, nè polvere, nè mai merli o scarpe fosse pur giorno di gala; portava il cappello tondo alla quacquera, calzoni ingambati negli stivali prussiani, giubba senza ornamenti nè bottoni di smalto, e panciotto d’un sol colore verdone o cenerognolo non lungo quattro dita oltre al fianco. Cotali mode le aveva portate da Padova; diceva che gli piacevano per esser comodissime in campagna, ed aveva ragione. Noi perchè s’era avvezzi a quegli sfoggi alla pantalone d’allora, ridevamo assai di quella succinta vestizione, senza risalto d’oro, di frangie, di bei colori. La Pisana chiamava Lucilio il signor Merlo; e quand’ei