Pagina:La guerra nelle montagne.djvu/45


Portano un cappello «alla lobbia», ornato di una penna (logora talvolta fino a rassomigliare a un moncone); i chiodi ritorti delle loro scarpe paiono le zanne di un lupo e sono altrettanto aguzzi; gli occhi, acutissimi, rassomigliano a quelli dei nostri aviatori; l’incesso, sul loro proprio terreno, fa pensare al mare; e, in verità, non avevo mai avuto l’onore di incontrarmi con un’accolta di così buoni diavolacci, nè di ragazzi più briosi, più proprî e dallo sguardo più fermo di costoro.

«In che consiste il vostro lavoro?» fui abbastanza ingenuo di domandar loro, mentre ero assiso tranquillamente a una mensa di ufficiali, situata a settemila piedi di altezza, fra i pini e le nevi. Per il momento la foresta ci privava della vista opprimente della montagna.

«Oh, venite a vedere» dissero quei giocondi fanciulloni. «Stiamo lavorando pochi passi più in su, sulla strada. Pochi passi più in su».

Mi condussero su un carretto fino al termine della linea degli alberi, in alto, sull’orlo del bacino montuoso, ai piedi di una scoscesa muraglia rocciosa, dominante all’intorno, che io avevo veduto avvicinarsi, a poco a poco, per ore ed ore, lungo la strada. Alla distanza di venti o trenta miglia il masso enorme sembrava assolutamente e implacabilmente inaccessibile ad una scalata, come, presso a poco, il Monte Bianco veduto dal lago. Avvicinandolo, però, lo avevamo trovato ancor più ripido e ci era apparsa una solitudine di balze, dall’aspetto minaccioso, e di orribili cre-