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non si doveva; lasciandola com’era, ove qualche modificazione poteva pure adottarsi.

L’arcione1 è corto; ha bande troppo strette, rese deboli dall’incastro degli archi, e non abbastanza convesse.

L’arco anteriore, alzato dal pomo, forza la mano delle redini ad una elevazione contraria al miglior modo di condurre il cavallo.

L’arco posteriore, prolungato dalla paletta che prosegue in dritta linea, riesce ugualmente troppo alto, a causa della grossa valigia; forza il cavaliere ad alzar troppo la gamba nel montare a cavallo, e nuoce al balzar in sella in armi, con tutto il carico.

A rimediare a tutti questi inconvenienti, bisogna prima di tutto dar più lunghezza e convessità alle bande; poi togliere il pomo all’arco anteriore, e combinare l’elevazione della paletta al posteriore, in modo, da formare con esso un angolo ottuso, bastante a tener sollevata nel mezzo la valigia a due dita dalle reni.

I due archi, fissati alle bande contro il rialzo formato dalla loro maggior grossezza, e rinforzati da sottile lista in ferro, vi siano uniti non più ad incastro, ma mediante correggiuole passate in sei fori, corrispondenti ad altrettanti sulle bande stesse.


  1. L’invenzione dell’arcione rimonta al V secolo. Sino a quell’epoca non si conosceva, nè sì potrebbero chiamar selle le bardelle imbottite a trapunto, o le pelliccie a più doppie che adoperavano gli antichi per aver un assetto più fermo e non ferire il cavallo, come si legge in Senofonte. — I Romani le assicuravano con tre cinghie; una al pettorale, l’altra alla groppiera e la terza fasciava il ventre del cavallo. — La chiamavano ephippium e se ne vede la forma nelle antiche medaglie, e specialmente in Roma nei bassorilievi della colonna Traiana, dell’arco di Costantino e della colonna Aurelia, detta volgarmente Antonina.
         Le staffe completarono l’invenzione della sella, che fu perfezionata verso la fine del VI secolo, cioè duecento anni dopo, sotto il regno di Teodosio come si legge negli scritti militali attribuiti all’Imp. Maurizio.