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In altro luogo discorsi lo improvvido richiamo de’ volontari lombardi dal Ttrolo. Essi entrarono in Brescia laceri e scalzi; pochi i forniti di cappotti, odi mantello; e quella povertà d’arnese, que’ visi inorcati dal sole e dai patimenti; quell’andar fiero e spavaldo — che comunemente assumon coloro i quali hanno sacrificato i propri interessi e rischiato la vita a pro della patria in faccia a chi coopera co’ soli voti a que’ rischi — in vece di farli bene accolti dalla popolazione, gli rendeva insultati e malvisi. Chiesero far parte di un’armata regolare. E lo indomani erano passati in rassegna dal colonnello Cresia; il quale — ignaro degli uomini e delle cose, e privo di quella espansività che molte volte fe’ dubitare sulla lealtà delle intenzioni ne’ saliti agli alti gradi nell’armata sarda — parlò loro enfatiche parole sul Piemonte, sul re Carlo-Alberto, sulla disciplina del regio esercito; e nulla sulla Italia, nulla sul principio santo della di lei indipendenza. A que’ detti la scontentezza fu grande e l’ordine cangiato in tumulto. Dissero ad alta voce voler combattere, ma non agli ordini di un re e per una frazione territoriale della loro patria; essere italiani cogli altri italiani; in faccia a’ piemontesi, lombardi. E al grido di «Viva il re» promosso dal Cresia, risposero «Viva «la repubblica!».

Il fratello del generale Durando, noto per un disegno di conciliatrice politica — mercè il quale la Penisola la sarebbe stata divisa in due Stati, Eridanio e Appennino, e le isole circostanti in feudi di compenso a’ principi sposseduti — erasi trasferito in Milano subito dopo le cinque giornate. Il governo provvisorio lo credette capace uomo di guerra e il nominò generale di brigata; quindi comandante supremo de’volontari lombardi ch’erano in Brescia. Con essi, organizzati alla meglio e convenientemente vestiti, partiva pel Caffaro onde trattener l’impeto de’ nemici tra i claustri delle Alpi e impedir loro piombassero sulla retroguardia dell’armata piemontese, occupata in quel tempo allò assedio di Peschiera. Giungeva in tempo; imperciocchè, gl’imperiali si concentravano in gran numero tra quelle gole per forzare tali posizioni importantissime. Campeggiando in Val di Ledro, sapevano che i nostri per naturai negligenza mal guardavano i loro posti e per instintiva securità facendo tempone ne’ dì di festa, giacevano l’indomani sprovveduti, briachi e bisognosi di quiete. Investirono adunque gii avamposti in sulla prima luce del 22 maggio e il reggimento della Morte capitanato dal colonnello Anfossi, diessi a fuga precipitata. Fortunatamente, il capitano Chiodi tenne fermo colle sue artiglierie e rispose al cannoneggiare e al vivo fuoco de’moschetti nemici. Il generale — avvisato di tanta ruina a Vestone — accorse col suo stato-maggiore; scontratosi a Sant’Antonio co’ fuggiaschi e snudata la spada, gl’incalzò minaccioso; e, spingendoli gli uni sugli altri, riordinavali. Luciano Manara, avvertito a tempo, muoveva co’ suoi da Salò, tolse con seco le guide del Tiralo, comandate dal Thannberg e, passando per Rocca d’Anfo, si ridusse a Sant’Antonio, ove la via si biforca, l’una scendendo al palazzo del Caffaro, l’altra ascendendo al monte Suelo. La mischia ricominciava e la durò due ore, finchè il soperchiale nemico, portatosi sul fianco sinistro lungo le pendici, rendette dubbia e micidiale la difesa del Caffaro e di Lodrone. Il colonnello